IN VISITA AGLI HOSPICE DELLA FONDAZIONE FARO PER LE CURE PALLIATIVE

A Carignano una nuova sede per rispondere alle esigenze della provincia torinese

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico e biografo)

È una discreta mattina di inizio autunno, ma ancora soleggiata, quando varco la soglia dell’hospice di Carignano (alle porte di Torino, nella foto l’ingresso), già sede dell’ospedale San Remigio chiuso nel 1984. Una struttura intitolata alla memoria del benefattore Alfredo Cornaglia (oggi scomparso), realizzata con il supporto della Fondazione Compagnia di San Paolo, inaugurata nell’ottobre 2021 e operativa da luglio dello scorso anno. Questa sede, che è gestita dalla Fondazione FARO (storica istituzione sanitaria assistenziale che come mission tutela il diritto alle cure palliative, e che quest’anno compie 40 anni di attività, direttore sanitario il dott. Alessandro Valle), consta di 14 stanze da letto singole con servizi interni e dotate anche di poltrona letto per un familiare. Ampi e luminosi gli spazi tali da creare un ambiente accogliente per assistere il malato e i suoi cari con un preciso piano specialistico, dal particolare accorgimento per le aree comuni. Infatti, l’edificio si sviluppa su un’area di 1.500 metri quadrati. Tra i vari spazi ospita anche una piccola chiesa, un salottino e la cucina per i familiari, e persino la “stanza del silenzio”. È in previsione la messa in opera di un’area verde dedicata anche ad attività espressive come il giardinaggio, aspetto anche questo inteso come “sostegno terapeutico”. Responsabile di questo hospice è la dott.ssa Gloria Gallo, medico oncologo e palliativista di provata esperienza, coadiuvata dal dott. Giovanni Cuccu, 9 infermieri (coordinati da Giusi Esposito), 10 Oss, una psicologa, una assistente sociale e due volontari che si alternano mattino e pomeriggio. L’attività si svolge su tre turni di 8 ore su 24, e ad ogni cambio avviene la consegna  con la verifica del turno precedente. Tutte le mattine alle 10.30 si tiene il briefing, ossia una riunione coordinata dalla stessa dott.ssa Gallo con tutti gli operatori dell’hospice, volontari compresi, per informare ed aggiornare le condizioni cliniche e/o psicologiche di ciascun paziente, ed eventualmente predisporre ulteriori terapie e/o mantenimento delle stesse. Per meglio conoscere questa attività che copre una discreta area della provincia, ho rivolto alcune domande alla dott.ssa Gallo, particolarmente motivata e pragmatica anche dal punto di vista organizzativo.

Dott.ssa Gallo, oltre alla routine quotidiana, quali altre incombenze sono previste?

“Dopo il briefing, se ci sono stati dei decessi il giorno prima o durante la notte, si procede ad attivare le procedure di circostanza; si prosegue con le visite e a relazionare ai familiari e/o caregiver. Sono anche attivati quelli che si definiscono i momenti comunitari come ad esempio la pet therapy e intrattenimenti musicali. Il tutto è facilitato da un’ottima sinergia tra gli operatori”

Cosa chiede il paziente agli operatori che lo assistono?

“Chiedono poco per timore… ma anche perché chi li assiste è in grado di “anticipare” le loro richieste. I pazienti che afferiscono a questa struttura in gran parte sono soli, ansiosi e per questo fanno richieste semplici con qualche attimo di “vicinanza” che viene soddisfatta dai nostri sanitari e dai volontari”

Quali sono le patologie più ricorrenti che richiedono il ricovero in hospice e quale la degenza media ?

“Molti i casi di malattie oncologiche, neurodegenerative (in particolare la SLA), alcuni casi di cardiomiopatia grave, come pure casi di insufficienza respiratoria grave; altri affetti da cirrosi epatica scompensata in fase terminale… La degenza media è di circa 21 giorni con 202 ricoveri dall’inizio dell”attività”

Qual è la provenienza dei pazienti che ricoverate presso di voi?

“In buona parte ci vengono inviati dagli ospedali in condizioni di fase avanzata di terminalità, altri dalla sede di residenza in quanto non hanno nessuno che li possa assistere”

Ma quali sono i requisiti per poter accedere all’hospice?

“Devono anzitutto essere pazienti che necessitano di cure palliative (quindi non più cure attive), e che hanno una aspettativa di vita dai 4 ai 6 mesi, oltre a rientrare nella cosiddetta scala di Karnosky, ossia una scala di valutazione di autonomia del paziente (il cui valore deve essere pari o inferiore a 50), inoltre non avere un caregiver”

E a proposito di questa figura, come si presenta il caregiver?

“Spesso sono esausti soprattutto se hanno seguito il loro malato a casa finché hanno potuto… A volte alcuni manifestano sensi di colpa ritenendo di non aver saputo o potuto assistere il familiare nel migliore dei modi. Tuttavia, la nostra équipe su questo aspetto cerca di essere loro vicini il più possibile”

Gli psicologi intervengono anche sul caregiver?

“Sempre, in quanto le cure palliative implicano il prendersi cura, appunto, del malato e della sua famiglia; inoltre, è attivato il servizio definito “Caro dopo”, una forma di assistenza per la fase del lutto, mentre per le pratiche burocratiche interviene l’assistente sociale”

In cosa consiste la “ Stanza del Silenzio”?

“È una stanza dedicata ai pazienti e loro famigliari per momenti di raccoglimento dove non ci sono immagini religiose, e questo per rispetto di qualunque Fede, in cui si possono fare meditazioni, letture spirituali, o per dare corso ai propri riti secondo la propria Religione. In questa circostanza regna il silenzio dove ci si trova con sé stessi”

Nel vostro ambito, per quanto motivato e particolarmente sinergico, in che misura si manifesta il burnout?

“In questo anno e mezzo di attività non si è mai manifestato alcun caso e, anche se non sembra, è molto raro pur in presenza di cure palliative e “dell’evento morte”, in quanto ci prendiamo “cura di noi stessi”. Siamo molto attenti ai nostri operatori, organizziamo momenti di incontro tra noi  unitamente alle psicologhe e agli infermieri, e il briefing è proprio anche un momento per mettere in “discussione” le nostre stesse problematiche o momenti di “scoramento”, sia pur occasionali. Insomma, una sorta di autosostegno”

Dott.ssa Gallo, 25 anni di esperienza a contatto con pazienti critici, maturata agli hospice di Torino, in uno dei quali è stata responsabile, cosa le ha dato questa professione e soprattutto il costante rapporto con i pazienti?

“Questa professione mi ha dato molto, anzi moltisismo; e ai colleghi che si stupiscono di questa mia costante dedizione, dico loro che non sanno cosa stanno perdendo… Da questi malati ogni giorno imparo qualcosa, ossia cosa vuol dire la sofferenza, la dignità di queste persone nel portare avanti una malattia che non si risolverà…; inoltre, mi ha insegnato (e mi insegna) a convivere con la sofferenza, a parlare di morte imparando a riconoscerla attraverso le loro espressioni come una fase della vita di ognuno di noi”

Ed è così che il valore della dignità viene trasmesso da un malato grave?

“Assolutamente. Noi, tutti i giorni impariamo da questi pazienti non solo per la malattia che li ha colpiti, ma anche per i diversi problemi intimi che si portano dentro. Infine, il contatto con questi pazienti mi ha insegnato e mi insegna ad apprezzare anche le piccole cose”

Quali le sue riflessioni sulla esperienza nella FARO?

“È notevole proprio per l’apporto delle cure palliative, la cui necessità di somministrazione risale alle convinzioni dei torinesi prof. Alessandro Calciati (oggi scomparso) e dott. Oscar Bertetto, nel dar vita ad una realtà per colmare un “vuoto” nel campo dell’assistenza oncologica e delle cure palliative, veri protagonisti di quell’assistenzialismo non fine a se stesso, ma volto alla cura e al sostegno possibilmente a casa del malato, o comunque in un hospice totalmente dedicato”

INTERVISTA ALLA PSICOLOGA E PSICOTERAPEUTA CARLA GAI

Collaboratrice della FARO

Dr.ssa Gai, quali le ragioni per lavorare in un hospice?

“Ho iniziato nel 1989 e, in seguito alla frequentazione della Facoltà di Psicologia, mi sono avvicinata al volontariato con l’ANAPACA (onlus). Dopo la Tesi di Laurea ho fatto Ricerca e iniziato a lavorare alla FARO di Lanzo (To), dove sono presente da 27 anni come collaboratrice. Per quanto riguarda le motivazioni è in seguito alla perdita di una mia compagna di scuola (ero 17enne), e non avevo concepito che si potesse morire, da qui in poi il cammino accademico e professionale”

In quali ambiti esercita in particolare?

“Quello relativo alle cure palliative per 30 ore settimanali, e 20 ore di attività terapeutica di altro genere, oltre come consulente in un Nido d’infanzia”

Quali sono i suoi  rapporti con questi pazienti?

“Si manifestano con la profonda intimità, con il dialogo, l’ascolto, il contatto intimo in una dimensione più spirituale… anche se non sempre. Da quando esercito in hospice vengono proposti i cosiddetti “piani esistenziali”, e talvolta l’approccio è in forma più attenuata. Il mio contributo verte proprio sul piano esistenziale e di preparazione alla morte”

Si dice che a volte lo psicologo è la “carta assorbente” del malato.  È così?

“A mio parere no. In effetti non siamo ciò che assorbiamo, ma piuttosto siamo all’interno di una relazione sufficientemente forte che consente di ampliare in quel momento la sopportabilità mentale; ossia, con la propria mente in senso cognitivo offrire a chi si ha di fronte in quel momento la forza di reggere  il pensiero dell’imminenza di morte. Quindi, un accompagnamento alla ricerca di un senso attraverso una forza condivisa”

E questo anche nei confronti del famigliare?

“Esattamente, dal momento dell’ingresso del paziente in hospice sino alla fine, e anche oltre… dopo il lutto senza limiti temporali”

Quando finisce la giornata la psicologa Gai lascia tutto in hospice, o porta a casa?

“Porto tutto a casa e con gioia: in famiglia si parla anche di morte ma in senso culturale e costruttivo interagendo reciprocamente, e da qui la conoscenza della “speranzologia”, scienza imperfetta che ti fa sentire sempre al sicuro, anche quando le cose non dovessero andar bene e per questo si tratta di avere fiducia  in se stessi e negli altri”

Cosa insegna questa professione allo psicologo?

“A vivere! Molti sarebbero gli aneddoti a riguardo dalle più significative esperienze”

AL SEGUITO DELLA PET THERAPY NEGLI HOSPICE DELL’EX OSPEDALE SAN VITO DI TORINO

La mattinata precedente, negli hospice torinesi “Sergio Sugliano” e “Ida Bocca” ho seguito il breve percorso terapeutico (due ore) con gli operatori per la Pet Therapy, propriamente definiti operatori per gli Interventi Assistiti con gli Animali (IAA), coordinati dalla psicologa Vanessa Simili. Le operatrici, Anna Lami e Paola D’Agnese rispettivamente proprietarie dei cani: Cesare (un pastore australiano) e Sally (un Lagotto romagnolo), hanno introdotto i loro “beniamini” in ogni stanza dei pazienti, preventivamente informati dalla dr.ssa Simili chiedendo loro se avevano piacere ricevere gli animali in stanza e poterli accarezzare per alcuni minuti. Sia uomini che donne, in parte anziani e particolarmente debilitati, hanno accolto questi amici fedeli dell’uomo, mostrando loro tenerezza ma anche ricevendo quel piacevole contatto gioioso, taluni facendosi anche leccare mani e piedi. «La scelta dei pazienti più “predisposti” al contatto con l’animale – spiega la dr.ssa Simili – è una fase delicata, in quanto si tratta di capire lo stato fisico ed emotivo del paziente in quel momento, e l’esperienza mi aiuta ad “indiduare” i casi più “difficili” dal punto di vista della relazione,  comprendere i loro bisogni e se gradiscono essere avvicinati dai cani con i loro proprietari». Questo progetto, dalle particolari caratteristiche psicologiche e terapeutiche è stato fortemente voluto dalla psicologa e creato cinque anni fa con la dott.ssa Gallo, su “stimolo” di una paziente che amava i cani, che nel tempo ha dimostrato avere l’effetto di una vera e propria terapia complementare, ormai consolidata in Piemonte e in tutta Italia. «Mediare la relazione tra il paziente e l’animale – conclude la dr.ssa Simili – è il risultato di un benessere per entrambi, e perché no, anche per noi operatori».

BREVE STORIA DELLA PET THERAPY

L’impiego degli animali a contatto con pazienti affetti da particolari patologie fisiche e/o psico-neurologiche risale a tempi molto antichi. Ma venendo a quelli più recenti il primo approccio risale al IX secolo quando in Belgio vennero introdotti alcuni animali per curare i disabili. Il primo studio accertato dal punto di vista scientifico a scopo terapeutico risale al 1792, quando in Inghilterra il quacchero William Tuke (1732-1882) cominciò a curare pazienti con disturbi mentali, incoraggiandoli a prendersi cura di animali domestici. Nel 1867 in Germania al Betheld Hospital vennero introdotti cani, gatti e altri piccoli animali come parte integrante dei trattamenti di recupero. Negli anni successivi furono coinvolti oltre 5.000 pazienti, prevalentemente affetti da epilessia. Successivamente, nel 1875 il dottor Chessigne, medico e neurologo francese, cominciò a prescrivere l’ippoterapia a pazienti con problemi neurologici, in aggiunta all’uso di farmaci, in quanto secondo lui era ottima per favorire il recupero dell’autocontrollo e dell’attività muscolare. Nel 1919 negli Stati Uniti, presso il St. Elisabeth Hospital di Washington è stato realizzato il primo impiego di animali a scopo terapeutico, in particolare i cani per curare i pazienti che, durante la seconda Guerra Mondiale, avevano riportato gravi forme di depressione e schizofrenia. Un secondo impiego di animali negli ospedali americani fu realizzato nel 1942 a New York in ospedale per feriti di guerra con traumi emozionali e, il concetto di “Per Therapy” pare sia stato enunciato ufficialmente per la prima volta dal neuropsichiatra infantile Boris Levinson nel 1953. Questo medico considera il cane come co-terapeuta tanto che, nl 1969, ha elaborato la teoria della “Pet Oriented Child Psychotherapy”, proprio perché si basa su alcuni elementi tipici della psicologia infantile e del rapporto bambino-animale. Ma questa esperienza è proseguita con i due psichiatri americani Samuel ed Elisabeth Corson coniando il tipo di intervento con il nome di “Pet Facilitated Therapy. Dagli anni ’70 in poi questa terapia, definita “dolce”, ha trovato applicazione in svariati campi soprattutto negli USA, dove nel 1981 è stata fondata la Delta Society, associazione che si prefigge di studiare l’interazione uomo-animale e gli effetti terapeutici legati alla compagnia degli animali. In Italia la Pet Therapy si inserisce nel 1987, e la vera svolta avviene nel 2009 con l’istituzione del Centro di Referenza Nazionale per gli Interventi Assistiti con gli Animali. Prima di congedarmi dall’hospice Cornaglia di Carignano, ho letto una delle testimonianze lasciata dai familiari di un paziente ed esposta pubblicamente a ricordo: «Perché alla fine di un “viaggio”, la cosa importante non è la destinazione raggiunta, ma le persone con cui l’hai fatto. Grazie per “l’accompagnamento” a Francesco». Dopo questa esperienza vorrei concludere con questa personale riflessione: «Il prossimo che prematuramente ci lascia, incupisce il nostro cuore ma nello stesso tempo ci induce alla ricerca di quei valori esistenziali che, a volte, non gli abbiamo sufficientemente considerato».

Foto a cura di Giulia Dalla Verde

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