Nel Giornalismo di oggi l’Etica è un po’sottovalutata

Tra dovere etico-professionale e libertà di espressione nel giornalismo italiano il confine non è poi così sottile

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico e opinionista)

Chi si ritiene un buon giornalista alzi la mano destra, chi invece ammette i propri limiti alzi la sinistra. Una provocazione? Non proprio, direi, in quanto ci sarebbe da disquisire sulla necessità, o meno, di adeguarsi (come da Legge 148/2011) ai corsi di aggiornamento con relativi crediti formativi. Premesso che secondo la Legge del 1963 nel nostro Paese è assai “facile” diventare pubblicisti, resta da stabilire con quale criterio (e chi) si valuta il rispetto dell’etica e della deontologia professionale. Si prenda in considerazione, per esempio, che in quasi tutti i telegiornali (ed altri servizi), non solo si tende ad inglesizzare eccessivamente ma anche ad usare termini in italiano il cui significato semantico non è accessibile a tutti, nonostante la nostra lingua sia ricca di vocaboli e anche di sinonimi. Inoltre, si denota poca osservanza soprattutto per la Carta di Trieste  (e la Carta di Treviso). Nel primo caso è relativa al codice deontologico per i giornalisti che si occupano di notizie inerenti il disagio mentale; nel secondo caso, il documento impegna i giornalisti italiani a norme e comportamenti deontologicamente corrette nei confronti dei minori in genere. Se quest’ultima è in realtà più rispettata, quella relativa alla Carta di Trieste lo è molto meno perché spesso si leggono articoli (anche su autorevoli quotidiani) come “Il figlio autistico rimane a casa…” (6/2/2021), “È autistico, non avrà un futuro…” (21/2/2021), “Bimba epilettica muore dopo la vaccinazione…”(14/10/2018), ”C’è una scuola per la liceale anoressica, la vittoria del papà” (17/7/2020). A fronte di questi titoli va ricordato che i cittadini con disturbo mentale hanno espresso (giustamente) il volere di essere chiamati anzitutto persone, che hanno un problema di salute, ma che non vengono identificati con esso. Per la precisione, ad esempio, si dovrebbe dire che soffre di depressione, anziché “il depresso”; un uomo affetto da schizofrenia (anziché “è uno schizofrenico”); il malato di Parkinson (anziché “il parkinsoniano”), è affetto da distrofia muscolare (anziche il “distrofico”), persona con disturbo mentale (anzichè “il malato di mente”), etc. Per non parlare poi dei termini scurrili che per bon ton non sto a citare, e che purtroppo  sono assai ridondanti e, a questo riguardo, non si tratta di essere pudici ma semplicemente di senso civico e corretta etica professionale. Ora, è vero che la globalizzazione che comprende la liberalizzazione culturale dei costumi si è imposta ad oltranza per una serie di ragioni, ma per coerenza vi immaginate se un presidente della Repubblica, un ministro o un prelato invitati da una testata giornalistica a scrivere un articolo dovessero esprimersi con qualche termine scurrile? Il fatto stesso che a un cronista qualunque, rispetto ad una auorità istituzionale, sia concesso andare oltre le regole del bon ton, è palesemente un esempio di mera ipocrisia. Ma ciò nonostante il turpiloquio giornalistico è anche radio televisivo, sia da parte dei conduttori giornalisti che degli ospiti-opinionisti (Vittorio Sgarbi docet!). Poi ci sono le imprecisioni di carattere  tecnico e/o scientifico, come ad esempio nella cronaca nera e giudiziaria che a volte riporta il concetto di “raptus omicida, che di fatto non esiste, soprattutto dal punto di vista psico-patologico. E, a questo riguardo, lo psichiatra e neuroscienziato prof. Claudio Mencacci ha più volte precisato che «di tale definizione ne viene fatto un ricorso del tutto inappropriato. E cosa ancora più grave è che spesso se ne fa un uso giustificazionista e assolvente. Normalmente c’è una lunga preparazione e un’attitudine alla violenza e all’aggressività, che trova un momento culminante già precedentemente manifestato». Infine, vorrei gettare un velo pietoso su taluni concorsi giornalistici in cui i partecipanti iscritti e i componenti della giuria sono tutti appartenenti alla categoria del giornalismo: una allegra “rimpatriata” tra amici… cicero prodomo sua. In buona sostanza, senza dilungarmi oltre, si fa tanto parlare delle Scuole di Giornalismo e dei suddetti Corsi con crediti formativi, ma quanto si insegna e soprattutto si vigila sull’etica di questa professione? E, per curiosità, quanti direttori responsabili di testate nazionali (assai noti) hanno partecipato a questi Corsi? Da come si legge ogni giorno (o quasi), a mio avviso, non c’è scuola  di giornalismo o corsi con crediti  formativi che tengano se l’etica non è insita nell’autore. Concludo con una altrettanto nota dolente: in molti casi permane una sorta di dicotomia tra giornalisti dipendenti e giornalisti freelance, come se le due fazioni fossero in competizione, specie se questi ultimi sono meno noti al pubblico e ad altri colleghi non freelance, o peggio ancora se scrivono per volontariato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *