IL “DOVEROSO” IMPEGNO DI CHI SI DISPERA…

La crudeltà dei nostri simili talvolta ci disorienta e allontana dalla ragione, ma ciò non deve avere il sopravvento per non morire insieme a chi abbiamo perduto.

di Ernesto Bodini (giornalista e divulgatore di tematiche sociali)

Tra gli innumerevoli perché che affollano la mente dell’uomo, ve n’è uno che mi induce a riflettere dal punto di vista psicologico. Ossia, perché alle esequie della dipartita di un essere umano si tende a ricordarlo sempre con espressioni di generosa bontà anche se il suo passato è stato poco adamantino, se non peggio? Preciso subito che ogni essere umano ha diritto al rispetto della dignità anche post mortem, e questo non solo dal punto di vista cristiano, ma anche da quello etico e filosofico poiché ogni essere umano è creatura di Dio e solo a Lui spetta il giudizio finale (peccato per chi non ci crede!). Ora, in questi casi non si tratta di gettare la classica acqua sul fuoco, ma di “riconsiderare” l’essenza umana pur essendosi macchiata di azioni contro i propri simili. Mi rendo conto che questo è un concetto assai ostico da accettare, soprattutto da parte di coloro che per mano violenta hanno perso un proprio familiare… ancor più se di minore età. È evidente che mi sto avvicinando al cristiano concetto del perdono, ma nello stesso tempo anche tentando di comprendere (sia pur con estrema difficoltà) lo stato d’animo di chi ha subito l’onta del disprezzo umano, e a nulla o molto poco servono parole di conforto anche a distanza di anni dall’evento che li ha colpiti. Come sempre, rammento che non sono né un accademico e né un religioso, ma un attento e costante osservatore degli eventi sociali cercando di comprenderne cause ed effetti cui far seguire alcune riflessioni in merito, e in taluni casi anche qualche suggerimento. Quindi, tornando alle omelie che si recitano alle esequie (seguite dai soliti ipocriti applausi), non è cristiano esprimersi con una certa acredine (sia pur velata) da parte di chi è stato leso verso chi non può rispondere, ma è piuttosto saggio cercare di capire le cause che hanno originato un’azione malvagia che, da sempre, l’uomo compie non considerando il valore della vita umana (paradossalmente nemmeno la propria). Ecco che rievocare pensieri e studi filosofici ci portano a prendere atto di quanta complessa è la psiche umana e, a mio modesto avviso, ancora poche sono le conoscenze in merito anche perché la stessa è un labirinto insondabile e, se fosse pure percorribile, ci si perderebbe nei suoi meandri sino all’infinito. Con queste mie considerazioni non intendo certo “antepormi” agli studiosi del pensiero delle varie epoche (filosofi, antropologi, psicologi, sociologi, etc,), e nemmeno sondare oltre l’animo di chi ha sofferto (e soffre) per aver subito una perdita in modo cruento; tuttavia credo che ci si debba soffermare qualche istante con una breve riflessione sul mistero dell’esistenza che, paradossalmente, potrebbe aprire un sia pur breve spiraglio di conforto… A tal riguardo tale invito dovrebbe essere rivolto anche a chi dovrebbe tutelare la nostra vita terrena, poiché la prevenzione è un dovere e nello stesso tempo anche considerazione dell’Essere. E come interpretare, dunque, lo stato d’animo di coloro che hanno vissuto (o potrebbero vivere) il dramma della follia omicida, più o meno cosciente? E soprattutto come comportarci nei loro confronti? Non è facile dare una risposta: un abbraccio, un bacio o una stretta di mano sono azioni umane ma dai grandi limiti, in quanto per le loro ferite non esiste una definitiva possibilità per essere rimarginate. Chi ha subito una grave perdita si dice che dovrà attendere molto tempo per elaborare il lutto, e forse per taluni ciò non avverrà mai; ma non sarà certo il rancore a lenire questa sofferenza, bensì cercando quella voce interiore apparentemente non udibile ma non per questo inesistente.

Dunque, si parli sempre schiettamente ma con rispetto verso chiunque, nobili o ignobili che siano state le sue azioni e, in questi casi, forse un buon “sostegno” potrebbe essere la lettura (o rilettura) della vita di Dante Alighieri (1265-1321), con la cui opera letteraria ha inteso liberare l’uomo dal peccato attraverso la conoscenza di quest’ultimo; oppure la vita e le opere del filosofo danese Söeren Kierkegaard (1813-1855 nell’immagine), il quale sosteneva che «La vita non è un problema da risolvere, ma un mistero da vivere». In buona sintesi, non ho voluto indegnamente confortare alcuno (non ne avrei l’autorevolezza, e forse nemmeno il consenso), ma più semplicemente contribuire a gettare un po’ di luce su quel sentiero irto di ostacoli ma pur sempre percorribile, poiché anche la nostra stessa vita continua e va degnamente onorata e rispettata. Su quest’ultima considerazione, purtroppo stanno aumentando anche i suicidi, ossia un gettare la spugna come se l’esistenza non dovesse proseguire per chissà quali recondite ragioni: ecco un altro motivo a dimostrazione del fatto che se la mente umana non è malata, è e sarà inspiegabilmente insondabile.

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