18 Apr 2023

Per la Procura di Padova Ultima generazione è un’associazione a delinquere – #712

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La Procura di Padova ha indagato gli attivisti di Ultima generazione per associazione a delinquere, una misura piuttosto anomala che si somma al recente attacco del governo contro i cosiddetti eco-vandali. Parliamo anche della recrudescenza del conflitto in Sudan, della nuova gigantesca centrale nucleare che è entrata in funzione in Finlandia (ma con un leggerissimo ritardo sulla tabella di marcia e costi folli) e di come la Francia si sta muovendo per porre fine alla moria dei delfini dovuta alla pesca intensiva.

C’è una novità un po’ inquietante che riguarda gli attivisti e attiviste di Ultima Generazione. La novità è che la Procura di Padova ha indagato il gruppo locale del movimento per associazione a delinquere. Associazione a delinquere è una roba grossa, è il tipo di reato tipico delle organizzazioni criminali, per cui si parla di pene carcerarie da 1 a 7 anni.

Comunque, vediamo meglio come sono andate le cose seguendo quanto riportato da su articolo di Roberta Polese sul Corriere della Sera: “Dopo le multe e le polemiche, i militanti di «Ultima Generazione» subiscono ora un inedito colpo giudiziario. Una procura ha preso di petto la situazione e ha indagato 12 attivisti del clima, contestando a cinque di loro anche il reato di associazione per delinquere finalizzata al deturpamento dei beni culturali, interruzione di pubblico servizio e ostacolo alla libera circolazione. Rischiano fino a sette anni di carcere. 

Accade a Padova, dove il pm Benedetto Roberti ha fatto seguire gli ambientalisti per tre anni dalla Digos, individuando i capi dell’organizzazione. Uno di loro è stato perquisito, altri sono stati schedati e controllati a vista. Sette gli episodi contestati agli studenti universitari (tra le loro fila, però, c’è anche un cinquantasettenne).

A Padova il nucleo di «Ultima Generazione» ha cominciato a farsi sentire a partire dalla scorsa primavera imbrattando il centro culturale San Gaetano in città. Gli attivisti si sono poi incatenati dentro alla cappella degli Scrovegni dove sono custoditi gli affreschi di Giotto, che però non furono toccati. Scritte sui muri contro il gas e il carbone sono comparse poi a settembre in un circolo della Lega in periferia, e un altro blitz, sempre al medesimo circolo, è stato sventato dalla Digos che stava pedinando i militanti. Inoltre, sul conto dei 12 indagati, ci sono vari blocchi del traffico”.

Ora, mi sento di fare qualche osservazione:

  1. È la prima volta che viene formulata l’accusa di associazione a delinquere a degli attivisti ambientali, per delle azioni di disobbedienza civile
  2. Questo avviene, fra l’altro, in un momento in cui il governo ha appena previsto un inasprimento delle pene per il reato di imbrattamento, fino a 60mila euro di multa.

Insomma sembra esserci una sorta di manovra di accerchiamento non so se e quanto volontaria e concordata, da parte delle istituzioni verso l’attivismo climatico che è molto pericolosa. Perché in genere un inasprimento delle pene porta a due conseguenze apparentemente opposte ma complementari. Da un lato scoraggia l’attivismo diciamo moderato, dall’altro alimenta e incoraggia la radicalizzazione del dissenso.

Che è esattamente la dinamica opposta rispetto a quella di cui avremmo bisogno, a mio avviso. Dovremmo normalizzare il dissenso, dovrebbe diventare scontato per chiunque che il governo, le aziende, tutti e tutte noi dobbiamo cambiare rotta molto velocemente. 

Spostiamoci in Sudan, dove da sabato mattina sono in corso scontri molto violenti tra esercito regolare e un gruppo paramilitare chiamato Rapid Support Forces. Vediamo che cosa sta succedendo facendoci aiutare da un articolo del Post. Secondo quanto riporta l’articolo, “gli scontri si sono concentrati nella capitale Khartum, dove tutto è cominciato con bombardamenti da parte dell’esercito di una base militare controllata dalle Rapid Support Forces. I combattimenti si sono estesi poi al palazzo presidenziale e all’aeroporto della città, di cui entrambe le fazioni in lotta hanno rivendicato il controllo”. Negli scontri, secondo un’organizzazione di medici locali, sarebbero stati uccisi almeno 97 civili e più di 300 persone sono state ferite.

Ma a cosa dobbiamo questo scoppio di violenza? “Al centro dei combattimenti ci sono i due personaggi più influenti della politica del Sudan degli ultimi anni: il presidente del paese, il generale Abdel Fattah al Burhan, che comanda l’esercito regolare, e il suo vicepresidente, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti, che invece è a capo delle Rapid Support Forces”.

Burhan e Dagalo si dividono il controllo del paese fin dall’aprile del 2019, ovvero dalla destituzione con un colpo di stato dell’ex presidente Omar al Bashir, che aveva governato il Sudan in modo autoritario per trent’anni. Burhan era allora già il comandante dell’esercito sudanese, che insieme ai movimenti di opposizione civile guidò il colpo di stato.

Burhan ha 63 anni e nella sua lunga carriera dentro l’esercito sudanese si è distinto in particolare per essere stato uno dei pochi generali non islamisti durante il regime islamista di Bashir. Fra l’altro fu coinvolto come comandante dell’esercito sudanese nella guerra in Darfur (regione occidentale del Sudan), conflitto considerato fra i più sanguinosi di sempre. 

Ed è proprio dal conflitto in Darfur che ha origine anche la scalata al potere di Dagalo. In quel conflitto infatti alcune milizie assoldate dall’esercito sudanese furono accusate di enormi violenze, stupri e crimini di guerra contro le persone appartenenti alle comunità non arabe. Tra queste milizie la più conosciuta era Janjaweed, composta prevalentemente di pastori arabi, che l’allora presidente Bashir assoldò per reprimere la ribellione delle popolazioni non arabe. 

Ne faceva parte anche Dagalo, che in poco tempo ne divenne uno dei principali comandanti. Della sua storia non si conoscono molti dettagli: si sa che ha circa 50 anni, che ha alle spalle solo un’educazione da scuola elementare e ha un passato da mandriano di cammelli. Alla guida di Janjaweed si rese responsabile tra le altre cose di un massacro di 126 civili nella città di Adwa, nel sud del Darfur, nel novembre del 2004.

Le Rapid Support Forces vennero costituite nel 2013 su volere del governo di Bashir per far confluire i miliziani di Janjaweed in un apparato militare meglio organizzato e addestrato per combattere in Darfur. Dagalo ne venne nominato da subito comandante, ma il suo ruolo presto divenne molto più ampio del semplice comando militare. Nel 2017 utilizzò la milizia per prendere il controllo delle miniere d’oro del Darfur, cosa che gli permise di arricchirsi moltissimo (si stima che sia uno degli uomini più ricchi del paese). 

Anche grazie alle risorse economiche accumulate con il controllo delle miniere d’oro del Darfur, le Rapid Support Forces oggi hanno in dotazione armi ed equipaggiamenti paragonabili se non superiori a quelle dell’esercito regolare.

L’articolo spiega anche come il rapporto tra Burhan e Dagalo cominciò proprio nella guerra del Darfur, quando i due iniziarono a collaborare per la prima volta, spartendosi di fatto il potere militare nel paese. Nel colpo di stato dell’aprile del 2019 Dagalo si schierò contro Bashir e al fianco dei golpisti e dopo un breve periodo di transizione democratica con al governo l’ex primo ministro Abdalla Hamdok, nel 2021 ci fu un nuovo colpo di stato e Burhan divenne il capo del Consiglio Sovrano del Sudan, organo a partecipazione civile e militare che, a parole, avrebbe dovuto portare il paese a elezioni democratiche nel 2023. Dagalo venne nominato suo vice.

Ma a quel punto l’alleanza fra i due leader ha iniziato a vacillare, soprattutto dopo che nel dicembre del 2022 il governo di Burhan aveva acconsentito a un accordo per restituire il potere a un’amministrazione civile. Accordo che prevedeva tra le altre cose lo scioglimento delle Rapid Support Forces, che avrebbero dovuto confluire nell’esercito regolare. Dagalo si era però opposto da subito, temendo di perdere il suo potere, e aveva detto che l’integrazione del suo gruppo paramilitare con l’esercito avrebbe richiesto non meno di dieci anni. Da allora Burhan e Dagalo avevano cominciato a scambiarsi accuse durissime, facendo capire di essere pronti allo scontro armato, che si è infine verificato sabato.

Come commenta Pierre Haski su France Inter: “Lo scontro rischia di cancellare quattro anni di lotte per la democrazia. La società civile sudanese è solida e dotata di organizzazioni professionali potenti, a cominciare da quelle dei medici e degli ingegneri, ma si scontra da sempre con un esercito che non vuole rinunciare al suo potere né ai privilegi economici.

Nel corso dell’ultimo decennio le aspirazioni verso la libertà, nate nel 2011 in Tunisia, si sono infrante contro una serie di ostacoli. Dominio islamista, controrivoluzione conservatrice, guerre civili, disincanto della popolazione: le ragioni dell’insuccesso sono numerose. In Tunisia come in Sudan, gli attori della società civile non hanno avuto né la forza né la coerenza per prevalere”. Parole amare che descrivono una situazione al momento drammatica. 

Qualche giorno fa commentavamo l’abbandono definitivo del nucleare da parte della Germania. Oggi torniamo a parlare di nucleare ma in maniera molto diversa, con una notizia almeno apparentemente di segno opposto. Perché ieri la Finlandia ha acceso un nuovo reattore presso la centrale nucleare di Olkiluoto. Il primo in Europa dal 1991. Ed anche il primo reattore europeo ad acqua pressurizzata (EPR), il modello di nucleare di terza generazione avanzata (III+) che – spiega un articolo su Rinnovabili.it – spesso viene indicato dai fautori dell’atomo come la soluzione per centrare gli obiettivi della transizione energetica. 

Ma quindi il mondo sta abbandonando l’energia nucleare o sta andando verso di essa? È un freno o un incentivo alla transizione energetica? Premesso che è un tema complesso, cu cui c’è un ampio dibattito in corso, credo che qualche indicazione anche il caso della Finlandia ce la possa dare. Perché se lo osserviamo più da vicino scopriamo che c’è un altro record registrato dall’impianto finlandese: la sua entrata in funzione arriva con qualcosa come 14 anni di ritardo rispetto alle previsioni iniziali. Nella efficiente Finlandia. Nemmeno fosse la Metro C di Roma. 

La sua costruzione è iniziata nel lontano 2005 e doveva durare solo 4 anni, per finire nel 2009. Era finanziata da Siemens (che si è poi sfilata) e dalla francese AREVA, che nel 2015 è andata in bancarotta proprio per via dei costi della centrale che stavano lievitando. 

Dai 3 miliardi di euro iniziali si è poi arrivati a un conto da almeno 11 miliardi. Alla fine il progetto è stato finanziato “essenzialmente dai bilanci delle principali aziende finlandesi e dei grandi consumatori di energia, oltre che da diversi comuni, in base a un accordo unico nel suo genere che li rende responsabili dei costi di capitale indefiniti dell’impianto per un periodo di tempo indefinito, indipendentemente dal fatto che ricevano o meno l’elettricità.

Domanda: ma quando si fanno le stime sull’utilità e convenienza del nucleare, si fanno sui costi preventivati o su quelli effettivi?

Spostiamoci in Francia, e spostiamoci su GreenMe dove Francesca Capozzi ci racconta di una vicenda tragica che però ha visto una reazione sensata da parte delle autorità. Sto parlando della moria dei delfini, dovuta alla pesca sulle coste francesi del golfo di Biscaglia, che è quella enorme insenatura che sta al confine fra Spagna e Francia, al Nord. 

La premessa, terribile, è che dall’inizio dell’anno sono arrivate alle autorità francesi 174 segnalazioni di delfini comuni, tursiopi e focene trovati privi di vita con profonde ferite sui loro corpi. “Un numero impressionante che richiede una azione non più rimandabile”.

Ferite dovute a catture accidentali dovute alla pesca eccessiva. A cui il Consiglio di Stato ha deciso di reagire imponendo uno stop alle attività di pesca lungo le coste del golfo di Biscaglia.

Questo provvedimento è solo l’ultimo di una serie, come i dissuasori acustici di cui i pescherecci sono stati dotati, che fin qui non si erano dimostrati particolarmente efficaci. A questi dispositivi seguirà entro 6 mesi il fermo pesca.

La chiusura delle attività di pesca sarà al momento solo temporanea e localizzata. Ovvero: a partire da quest’inverno e nei prossimi sarà interrotta per tre mesi d’inverso e per un solo mese ogni estate.

Comunque un passo in avanti non da poco. Come scrive Sea Shepherd France: “Durante questo periodo tutti saranno vincitori. La biodiversità marina potrà finalmente respirare, i delfini liberi dalle reti, i pesci catturati crescono, si riproducono. Le popolazioni ittiche saranno più resistenti alla pressione della pesca. I pescatori potranno riposare pur essendo compensati durante il fermo e mettere in pratica metodi più selettivi”.

Prima di chiudere, ricordo che è uscita la nuova puntata di INMR+ sul caso Assange

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